Ciao,
sono Fatima, non sono la Madonna ma faccio miracoli lo stesso; tipo ieri, andavo per campi, ho visto due pellegrini: chiedevano arte contemporanea. Giorni dopo avevano in posta questa newsletter.
Prima di cominciare: Fatima in questi mesi è stata un po’ in giro e voi, discepoli vecchi e nuovi, volete sapere tutto di me, lo so, mi sembra giusto. Dunque, dopo Wired, Link Molto Belli, Exibart, Fatima si è presentata al pubblico di Generazione Critica per poi finire su Inside Art, dove sarà ospite per qualche mese. Ok, partiamo, e vi avverto non sarà una cosa leggera.
Adunche al tempo di Gostantino imperatore et di Silvestro papa sormontò su la fede christiana. Ebbe la ydolatria grandissima persecuzione in modo tale, tutte le statue et le picture furon disfatte et lacerate di tanta nobiltà et anticha et perfetta dignità
Nel galateo del giornalismo non si dovrebbe iniziare un testo con una citazione, lo so. Ma siate clementi, questa di Lorenzo Ghiberti, se potete, passatemela: è perfetta per introdurre il tema di oggi. Parliamo di iconoclastia, iconoclasmo, iconodulia, iconofilia, mi si è sempre accartocciato il cervello con tutti quei prefissi in eikon. In parole non greche: quella lotta tra aborrimento e culto delle immagini che si consuma da secoli e che nel 2020 ha lasciato una scia di morti di pietra seppelliti sotto le macerie del covid.
E qui entro in gioco io per riesumarli a pochi giorni dall’inizio del processo per George Floyd.
Ma torniamo a Ghiberti che con parole, è il caso di dire, lapidarie, ricorda come il vizietto di buttare giù statue, sculture e monumenti venga da lontano. In uno dei suoi Commentarî, preziosi trattati ragionati di storia dell’arte, meno sfogliati delle Vite ma pubblicati ancor prima di quella bibbia del Vasari, scrive che l’affermarsi del cristianesimo nell’impero romano porta a una lenta condanna del paganesimo, culminata nella sistematica distruzione degli idoli. Un soggetto che riscuote parecchio successo tra gli artisti del Cinquecento, magistralmente sintetizzato nelle Stanze vaticane con un’immagine ben più lapidaria delle parole del buon Lorenzo.
Secca e violenta, un pelo didascalica: la statua si sgretola e soccombe ai piedi della croce
Ma per fotografare questa guerra alle icone dovremmo andare più indietro nei secoli. La storia del Vitello d’Oro, per esempio, rende ancora meglio il concetto. Se serve una rinfrescata provo a semplificare. Siamo nell’Egitto pre-cristiano: Mosè aiuta a scappare gli ebrei, sale sul Monte Sinai per enunciare i dieci comandamenti e poi sparisce. Allora gli ebrei, in mancanza di Mosè, fabbricano una statua da adorare. Ma Mosè torna e non è felice di vedere che stanno venerando una mucca laccata d'oro. Alla fine li perdona ma prima brucia il vitello nel fuoco, getta le polveri nell’acqua e la fa bere agli israeliti. Bella storia ma andiamo avanti che la strada è lunga.
Comunque, per la cronaca, Mosè non è l’unico che rosica, Cristina Lucas ce l’ha a morte con Mosè ma per altri motivi
BOIA CHI MOLLA
Le ragioni per frullare dal piedistallo una statua, lo sappiamo, non sono solo religiose. Parigi, rivoluzione francese: volano teste ovunque, di carne e di pietra. Dopo aver sgozzato i regnanti, i francesi si fanno prendere la mano e si mettono a decapitare a rotta di collo le statue che li rappresentano. Per capirci, fanno fuori la Galleria dei re sui portali di Notre Dame (già prima devastata dagli ugonotti) che esponeva sulla facciata le statue di 28 re. I re erano Giudei ma i sanculotti un po’ ingenui pensavano fossero i monarchi francesi.
Comunque.
Victor Hugo, che a Notre Dame ci teneva parecchio, torna più volte su quel gesto scellerato e nel 1825 scrive in difesa dei monumenti storici un fantastico trattato intitolato, non a caso, Guerra ai demolitori.
Bisogna arrestare il martello che mutila il volto del paese. Una legge basterebbe; che la si faccia. Miserabili uomini, e così imbecilli da non comprendere nemmeno di essere dei barbari!
Sembra quasi di sentire ABO.
Sotto la scure giacobina, per la cronaca, crollano uno a uno i simboli del potere. Anche la statua del Re Sole in Place Vendôme, rimpiazzata da una colonna eretta nel 1810 per celebrare la vittoria di Napoleone nella Battaglia di Austerlitz.
Quella piazza però porta zella: poco dopo viene presa di mira pure la colonna.
La Comune di Parigi considera che la colonna imperiale della place Vendôme sia un monumento di barbarie, un simbolo di forza bruta e di falsa gloria, una affermazione di militarismo, una negazione del diritto internazionale, un insulto permanente dei vincitori ai vinti
Pare pare le parole del decreto emesso dalla Comune di Parigi nel 1871 per la rimozione della colonna, sostenuta anche da artisti e intellettuali. Viene messo in mezzo anche Courbet che per primo aveva mandato una petizione al governo di Difesa nazionale e che viene condannato a ripagare di tasca sua la colonna demolita. Risultato: beni confiscati e dipinti sequestrati. Gli va bene giusto perché muore poco prima di versare la prima rata.
Ma non stiamo qui a fare i conti in tasca a Courbet, passiamo ad altre rivoluzioni. Tipo quella russa. Ejzenštejn ci apre il film Ottobre con questa scena memorabile in cui lo zar Alessandro III cede alle corde dei lillipuziani.
Stessa sorte tocca a Lenin, non una ma 5.500 volte. In Ucraina negli anni sono state abbattute tutte le statue una dopo l’altra, ne rimane solo una a Chernobyl. Alcune prese a martellate, altre solo rimosse: buttare giù Lenin è diventata una pratica così abituale da meritare un nome, Leninopad. Con un libro, Looking for Lenin, nel 2017 il fotografo Niels Ackermann e il giornalista Sébastien Gobert vanno alla ricerca dei resti di quelle opere distrutte. La più famosa l’hanno ritrovata a Odessa: Lenin è diventato Dart Fener.
A ricordare le demolizioni storiche c’è il progetto La terre des socles vides di Nelson Pernisco. L’artista francese recupera capolavori, immagini di repertorio di statue che ondeggiano nel vuoto un attimo prima della loro distruzione. Tutte sono inclinate per ristabilire la verticalità del soggetto all’interno della composizione.
Qui siamo già nel 1941, l’appeso è il presidente della Terza Repubblica francese, Marie Joseph Louis Adolphe Thiers. Parigi è occupata dai tedeschi, ai tedeschi servono metalli per la guerra e lui ha avuto la sfortuna di essere in metallo. La fine la possiamo immaginare.
Mentre in Spagna rimuovono l’ultima statua dedicata a Franco su suolo iberico, in Italia ogni rimbombo iconoclasta che viene dall’estero risuona come una nuova occasione per rinfrescare il tema della damnatio memoriae e tirare giù dagli scaffali Apologia della Storia di Marc Bloch. L’anno scorso nel mirino: la statua di Indro Montanelli a Milano, minacciata di essere rimossa dai giardini vicino Turati. La stessa sorte molti la augurano a tutti monumenti ed effigi fasciste che costellano il belpaese. Qui, se vi interessa, c’è una mappa di quelli già fatti fuori durante la seconda guerra mondiale.
SIAMESI POLITICAMENTE SCORRETTI
Che ci sia dietro la religione o la politica, insomma, continua oggi quella perversa convinzione che nascondere la polvere sotto il tappeto sia la migliore delle soluzioni. Che trasformare in macerie la memoria storica serva a sanare ferite ancora aperte, offese al pubblico decoro, affronti alla democrazia. Dal Vitello d’Oro ai social network, la lotta ai simboli ha attraversato percorsi più insidiosi del deserto del Sinai per rimanere sostanzialmente la stessa. Nelle poleis, con il termine ostracismo si indicava un provvedimento giuridico per punire con l’esilio i personaggi potenzialmente pericolosi per la città. Questa antica forma di shitstorm si manifestava attraverso l’incisione del nome dell’esiliato su cocci e frammenti di vasellame. Oggi attraverso la lapidazione digitale. Il boicottaggio si diffonde tra le pieghe del web, insorge per la cancellazione di Eminem da Tik Tok, fonda il movimento #MuteRKelly per distruggere la carriera della star dell’r&b, rimuove in un nanosecondo chi gli sta sulle palle, elimina contenuti faziosi che possono minare la sensibilità collettiva. Stesse ragioni per cui, dopo la guerra ai monumenti degli eroi confederati, sono stati messi sotto processo di recente anche libri e film: Omero perché poco inclusivo, gli Aristogatti, perché offendono gli asiatici con i loro gatti stereotipati ed è stato rimosso dalla piattaforma HBO Via col Vento perché razzista. Questo potente strumento di censura è la forza della cancel culture. E se ti sembra la forma più legittima di rivalsa popolare, ti dico che in realtà è esattamente l’opposto. In ballo non c’è solo la nostra capacità di interpretazione, ogni giorno sotto lo schiaffo di questo isterismo collettivo, ma anche la credibilità di cause più che giuste.
Ma dio ce ne scampi: non sto qui a farvi la predica. Chiaro però che esibire un simbolo in uno spazio pubblico: una piazza o una piattaforma, non è mai un’azione neutra.
La dice lunga la prima scena della Dolce Vita.
E lo sa bene CosimoVeneziano che qualche anno fa ha mappato i monumenti costruiti in Italia in epoca berlusconiana, dal 1994 fino al 2012. Monumenti che con stanziamenti pubblici hanno rivalutato figure politiche discusse e personaggi dello spettacolo. Tipo questa.
Quando gli uomini muoiono entrano nella storia. Quando le statue muoiono entrano nell'arte. Questa botanica della morte è ciò che chiamiamo cultura. Che apertura di film ci ha regalato Alain Resnais.
LE STATUE NON MUOIONO, FANNO FINTA
No, scherzi a parte. Davvero, che fine fanno le statue quando vengono abbattute?
In genere i musei sono la risposta ma non quando si tratta di monumenti scomodi. La questione è riaffiorata proprio la scorsa estate dopo le proteste antirazziste negli USA. L’idea di istituire un cimitero di statue confederate pare essere l’ipotesi più battuta, prendendo l’esempio dei sovietici. Un luogo, insomma, che permetta di contestualizzare un po’ meglio ogni possibile riflessione sul significato e valore storico del monumento.
Certo, un po' macabro e un po' triste. Il più delle volte, tra l’altro, quella delle statue è più una mutilazione che una vera e propria morte.
Del resto quando un monumento viene distrutto, lascia in giro qualcosa di sé: una traccia, qualche frammento, una capoccia. Che sia colpa della furia iconoclasta o del passare del tempo, le amputazioni sono spesso più frequenti dell’omicidio.
Urbano VIII staccava i marmi del Colosseo per decorare i suoi palazzi. Un illuminato che anticipava teorie di economia circolare mentre il popolo scriveva pasquinate.
Ora torniamo un attimo indietro a una notte del 415 a.c, ad Atene. C’è la guerra del Peloponneso. Alcibiade deve partire all'alba per una spedizione in Sicilia, durante la notte vengono decapitate tutte le erme: teste scolpite su pilastri con tanto di genitali maschili. Il mistero non è stato mai risolto, Alcibiade finisce sotto processo per quello che diventa uno scandalo religioso e uno screzio contro la democrazia Ateniese. Aristofane intanto se la ride e scrive che l’attacco non era tanto alle teste quanto ai piselli.
Di piselli saltati del resto è piena la storia dell’arte. E vorrei farvi contenti e raccontarvi di omofobe evirazioni ante litteram ma la risposta è abbastanza deludente. Insieme al naso, le parti intime sono semplicemente quelle più sporgenti e per questo le prime a cadere durante trasporti e movimentazioni di opere.
A Berlusconi questa privazione degli attributi su statue di particolare virilità non è mai andata giù. Nel 2010 aveva fatto ricostruire il pene di Marte nel gruppo scultoreo che lo vede accanto a Venere nel Museo nazionale romano delle Terme di Diocleziano. Il restauro romantico era stato realizzato con un sistema magnetico, fatto rimuovere del tutto tre anni dopo. Fottuti puritani.
Non è cambiato niente insomma, come nell’Ottocento tra integratori e puristi c’è ancora oggi chi sta dalla parte di Viollet-Le-Duc e chi da quella di Ruskin.
Ma questa è un’altra storia che andrebbe presa alla lontana e che, in un certo senso, tira in ballo questioni più contemporanee, come le ricostruzioni virtuali di Palmira o i tentativi restaurativi ipotizzati digitalmente o con stampa 3D.
Ma c’è chi ci mette una pezza. In Belvedere, per esempio Simona Andrioletti riproduce in stampa 3D gli arti mancanti del Torso del Belvedere dei Musei Vaticani usando come modello il corpo del body builder scansionato: «Il mio interesse – spiega l’artista in questa intervista – è rivolto a restituire alcuni elementi della scultura greca e collocarli nell’esatta posizione in cui l’attuale opera ne è priva così da poterne immaginare l’originale». L’originale è lì, nello spazio vuoto, in quel chiasmo invisibile tra il braccio e la gamba.
Per Andrioletti, insomma, la scansione 3D è quello che per Rodin era il calco. Ma in fondo tutti e due fanno la stessa cosa, segnano la morte archeologica della scultura e determinano la sua reincarnazione, attivando una sostituzione anacronistica che non ha più nessuna aderenza con l’originale.
A proposito, Rä di Martino questa faccenda della reincarnazione la prende sul serio e non lo dico perché siamo sotto Pasqua
Un modo diverso per rielaborare la memoria spezzando il continuum storico del passato e creando quella che Benjamin chiamava un'immagine dialettica, in relazione con il passato ma svincolata dall'oppressione che esercita sul presente il suo significato. Questa era per lui una morte necessaria, il sangue da pagare per ogni rivoluzione.
Ah, sì, in tutto questo dovevamo arrivare a George Floyd ma ormai è chiaro che non lo faremo. La storia poi la sappiamo tutti, non saprei dire di più. Non ho neanche la più pallida idea di dove siano finite le statue di Churchill e di Colombo; su wikipedia sono mappate tutte le statue distrutte nel 2020. E comunque, che dite, è arrivato forse il momento per l’Italia di restituire Colombo agli spagnoli?
Bene, se è tutto chiaro ci vediamo prossimamente per un'altra apparizione. Nel frattempo sapete dove trovarmi (come sempre qui e qui).