In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio: il Verbo era Dio.
Da allora gli infedeli hanno provato a sporcarlo, svilirlo, riducendolo a verbo e materializzandolo negli infiniti che solo nel nome ricordano la potenzialità della parola.
Eroi semantici, i profeti, difensori degli incastri perfetti di sillabe, dei conteggi di ogni vocale, della precisione millimetrica dei termini, hanno depurato il suono del Verbo distillandolo dal rumore. Accecati da Dio, accecavano. Le loro parole sono lame che dal passato ci parlano del futuro.
Il peso delle visioni grava fortemente sulle mie pupille. I tempi sono maturi e le parole troppo pesanti per una sola bocca, è il momento per una liturgia a più voci, per un potente gregoriano, lo chiameremo Neviìm: il libro sacro dei profeti nel libro sacro dell'Antico Testamento nel libro sacro della Bibbia
Ogni profeta per Neviìm ha tre termini scavati nei testi sacri e chiama a sé una manciata di sommi artisti toccati dal Verbo. Saverio Verini è il primo profeta, altri seguiranno, le sue parole sono Indulgenza, Sermone, Eucaristia.
SERMONE
Fake it till you make it
Per me è un’associazione automatica: quando si parla di “fake news”, il pensiero corre immediatamente a Donald Trump. In effetti il dibattito sulla cosiddetta post-verità è scoppiato con l’elezione a sorpresa del Presidente degli Stati Uniti d’America, nel 2016 – nello stesso anno, ci dice il Guardian, “post truth” viene eletta “word of the year” dall’Oxford Dictionaries. Secondo quest’espressione, i fatti non sarebbero più intoccabili e a ogni verità se ne può opporre una alternativa. Alternative facts, fake news o, più semplicemente, bufale: sono termini entrati ormai a pieno titolo nelle nostre discussioni e nei vocabolari. Ma lasciando da parte Trump, come ricorda Fabio Gironi sul Tascabile, già nel 2005 il filosofo statunitense Harry Frankfurt osservava come “uno dei tratti più salienti della nostra società è che circolino così tante stronzate”. In effetti ho l’impressione che si tratti di una vecchia storia e non solo di una deriva della contemporaneità, per quanto oggi sembri che una stronzata possa propagarsi molto più facilmente (come dimenticare le “legioni di imbecilli” di Umberto Eco? Non male, però, la replica da parte di Massimo Mantellini). Il corso della storia è variamente popolato di notizie false: l’essere umano non è mai stato al riparo da menzogne deliberate, dicerie, pettegolezzi, complottismi utilizzati con diversi fini (sempre siano lodati Paolo Attivissimo e i cacciatori di bufale d’ogni epoca).
Anche con delle punte di genialità e dei guizzi dadaisti, più o meno consapevoli, come la donna cinese che per anni ha inventato di sana pianta delle voci Wikipedia sulla storia russa.
Quante volte abbiamo sentito parlare di fake news? Ce lo spiega Donald Trump
Nemmeno l’arte sfugge a queste dinamiche. Simulazione, imitazione, inganno: paradossalmente, si potrebbe dire che il massimo grado di menzogna si incontra proprio nel momento in cui l’arte ricerca la più alta adesione al reale. Un esempio? La celebre gara di pittura tra Zeusi e Parrasio. Si tratta di un aneddoto di Plinio il Vecchio e riguarda la contesa tra due dei più abili pittori dell’epoca: Zeusi dipinse un grappolo d’uva in maniera così naturalistica che degli uccelli vennero a beccarla; la vittoria sembrava sua, così chiese a Parrasio di scostare la tenda che copriva il suo quadro, ma questa risultò essere una tenda dipinta. Fu così che Zeusi perse la gara: lui aveva illuso gli uccelli, ma Parrasio aveva illuso il rivale. Insomma, uno dei più noti “miti fondativi” dell’arte è basato su un esplicito inganno sensoriale.
Eccolo il povero Zeusi, prima vittima del trompe-l'oeil
Nel tempo, attorno all’arte, si sono prodotte “mistificazioni” di diverso genere: penso alle panzane su alcuni capolavori, come nel caso della statua del Río de la Plata appartenente alla Fontana dei Quattro Fiumi di Gian Lorenzo Bernini. Una diffusa leggenda metropolitana vorrebbe infatti che la statua che simboleggia il fiume sudamericano tenga alzato il braccio per proteggersi dalla possibile caduta della chiesa che le si para di fronte, Sant’Agnese in Agone, realizzata proprio dal rivale di Bernini, Francesco Borromini: peccato che la fontana berniniana sia stata costruita con almeno due anni di anticipo rispetto all’edificio.
Lo ammetto: per anni ho creduto che questa storia fosse vera
Per non parlare di un’altra beffa passata alla storia, quella delle tre teste di Modigliani ritrovate nell’estate del 1984 in un canale a Livorno: molti critici attribuirono con sicurezza le sculture all’artista, fino a quando i veri autori non uscirono allo scoperto – si trattava di tre giovani del posto: guardate che spettacolo vederli riprodurre in tv l’oggetto della loro burla. Maurizio Cattelan ha eletto in modo deliberato l’impostura e l’elusione a mezzi espressivi, concettuali, poetici. Tra le tante operazioni, mi piace ricordare la mostra sul falso, la copia e l’appropriazione da lui ideata nel 2018 in Cina, allo Yuz Museum di Shanghai: anche il titolo – The Artist is Present – e l’immagine-guida dell’esposizione erano delle palesi imitazioni della performance di Marina Abramovic al MoMA.
Addirittura meglio dell’originale?
Insomma, il confine tra verità e inganno, tra realtà e apparenza, ha sempre informato le pratiche degli artisti e la storia dell’arte, diventando così terreno di gioco e scontro, strumento di provocazione, strategia estetica e concettuale. Non so dire se il periodo che stiamo vivendo spinga a enfatizzare la dicotomia vero/falso, ma mi vengono in mente varie opere realizzate da artisti che conosco e a cui mi piace pensare come una reazione – un antidoto? – rispetto a questa situazione, con l’accento che viene posto di volta in volta su ironia, denuncia, provocazione e inaspettate derive poetiche.
Fabio Giorgi Alberti ha puntato direttamente una delle principali fonti di notizie “chiacchierate”: la carta stampata. In particolare, si è concentrato sulle civette della stampa locale umbra, incorniciate dai simpatici espositori che in genere spuntano a fianco delle edicole. L’artista ha creato dei testi montando parti di titoli tratti da civette diverse: un cortocircuito che gioca sul carattere esclamativo e un po’ goffo dei titoli, conservando quel tanto di attendibilità data dall’utilizzo di un formato che, in qualche modo, è sinonimo di verità per chi vive in provincia. Il gesto è semplice, il risultato particolarmente efficace, a metà tra sottile strategia surrealista e la grottesca verve del “Vernacoliere”. Un’idea nata da una specie di esercizio quotidiano (osservare e archiviare le civette) e dall’interesse di Giorgi Alberti per il linguaggio e gli esiti imprevedibili dati dalle sue possibilità combinatorie.
Notizie che vorrei leggere sempre
Anche Moira Ricci parte da storie di paese, per così dire. La serie Da Buio a Buio esprime tutta la fascinazione dell’artista per il folklore e le sue derive più inquietanti. Tra le storie che compongono il progetto c’è quella di Giannino, bambino maremmano che negli anni Cinquanta si racconta portasse nel ventre un fratello gemello. Il gemello aveva addirittura iniziato a nutrirsi degli organi di Giannino, che si salvò solo grazie a un’operazione d’urgenza. Del gemello non si seppe più nulla, così come oggi nessuno ricorda più il cognome di Giannino – smarrito come il filo che, in questa vicenda, separa la finzione dalla verosimiglianza.
Leggerissimamente inquietante
Ricci riflette costantemente sul confine tra inganno e realtà del mezzo fotografico. In 20.12.53 - 10.08.04, l’artista si intrufola in modo mimetico nelle immagini del passato sulle tracce della madre, le cui date di nascita e morte danno il titolo alla serie e indicano il periodo temporale coperto dagli scatti. Moira Ricci, infatti, ha rielaborato digitalmente vecchie fotografie della figura materna, alla quale si rivolge con lo sguardo; una sorta di onnipresente fantasma che aleggia sull’immagine, materializzatosi nell’impossibile tentativo di riparare le ingiurie del tempo che passa.
Non c’è niente da fare, questo lavoro riesce a commuovermi ogni volta
Nella performance Una di queste storie è vera, Roberto Fassone propone visite in diversi contesti (collezioni d’arte, castelli, musei…) fingendosi una guida e presentando al pubblico dieci vicende e aneddoti legati al luogo e alle opere che vi si trovano. Piccolo particolare: come recita il titolo, solo una di esse è vera. Difficile separare il crinale tra vero e falso in questo lavoro. Fassone si insinua negli spiragli tra queste due polarità, facendo scivolare il pubblico in una condizione di sottile ambiguità: qual è, tra le storie narrate, quella non inventata? Per tutta la durata della performance il pubblico è spinto a porsi questa domanda, rimanendo in bilico tra autenticità, falsità e verosimiglianza, mettendo così in discussione la credibilità dell’autorità – in questo caso la guida – che detiene il controllo della narrazione. Un incantesimo che non viene spezzato nemmeno al termine della visita, visto che l’unico episodio reale non viene rivelato.
Roberto Fassone nei panni della guida della Collezione Iannaccone, a Milano. Alle sue spalle un’opera di Massimo Bartolini; alla sua sinistra un’opera di Charles Avery; alla sua destra, uno che dorme facendo il verso a una performance di Tino Sehgal
Più fake che più fake non si può è la serie FalseFriends di Francesco Fossati. Realizzate in marmo di Carrara, le lapidi ripropongono la retorica delle targhe commemorative, rovesciandone tuttavia l’immagine autoritaria ed evocando istantanee vivide, ispirate alle vite di artisti e personaggi storici. Gli episodi riportati – al confine tra verosimiglianza e menzogna, ironia e carattere grottesco – appaiono in diversi spazi pubblici, andando a mimetizzarsi alle classiche targhe che appaiono sui muri di palazzi e angoli di città. Un inganno che omaggia in modo irriverente le personalità menzionate, lavorando su un piano sottile: quando leggo le insegne, l’istinto è quello di visualizzare immediatamente le scene descritte, che prendono forma come i frame di un film inesistente.
Confermo tutto
Quest’opera di Marta Roberti mi sembra il termine ideale della piccola rassegna per immagini. Il disegno, tecnica a lei cara, presenta un ritratto della stessa Roberti, con una sostanziale modifica dei tratti somatici. Il naso si è infatti allungato, richiamando il tratto distintivo di Pinocchio: l’artista si autoproclama così “bugiarda”, riportandoci al suo ruolo primigenio di inventrice, illusionista, ingannatrice, ma anche creatura infantile che fa del gioco e della scoperta gli strumenti per relazionarsi con il mondo.
Eccesso di chirurgia estetica?
Non so dire quali siano le finalità degli artisti e delle loro falsificazioni: a differenza delle fake news di cui abbiamo parlato all’inizio, ho tuttavia la sensazione che le loro opere non intendano raggirare il pubblico, quanto rimettere al centro del discorso il potenziale magico dell’arte, l’espansione dell’immaginario, il piacere di lasciarsi trasportare in una dimensione di stupore e sorpresa dove tutto può verificarsi. Senza bisogno di alcun fact checking. Per tutto il resto, invece, conviene affidarsi al vecchio consiglio dei Public Enemy: Don’t Believe the Hype!
Bene, se è tutto chiaro ci vediamo prossimamente. Stesso profeta, nuove visioni. Nel frattempo sapete dove trovarmi (come sempre qui e qui).
https://genciletisim.com/ yeni nesil bir blog sayfasıdır.
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